Umanità Nova – d’ora in avanti UN: Dal primo lockdown a oggi ci date un’idea generale di quello che è accaduto nel mondo del lavoro e dell’organizzazione sindacale, soprattutto quello di base?
Antonio della CUB – d’ora in poi AC: Con l’inizio della pandemia tra marzo e maggio la situazione era un disastro insostenibile: i lavoratori continuavano a recarsi sul posto di lavoro e, certo, le agitazioni c’erano ma la situazione era difficile per noi organizzatori sindacali che dovevamo sia andare a lavorare sia restare dopo chiusi in casa. D’altronde se i lavoratori ti chiamavano per una situazione impellente che andava risolta dovevi trovare il modo per essere in fabbrica o in azienda e, per essere vicino a loro, occorreva in qualche modo essere presenti e violare il lockdown. La situazione era tragica: pensiamo alla situazione del bresciano e del bergamasco – ma non solo – dove ammalati e morti tra i lavoratori erano tanti, una situazione allucinante dovuta all’obbligo del recarsi sui posti di lavoro, tra l’altro notevolmente insicuri. Noi abbiamo resistito faticosamente in questa situazione fuori dal normale e abbiamo dovuto fare i salti mortali quando serviva la nostra azione di difesa. Adesso la situazione, da questo punto di vista, è un po’ migliorata, perché anche le zone rosse non sono paragonabili ai divieti di allora, la polizia non ci ha mai fermati – probabilmente è stata una scelta questa di “ammorbidire” i controlli. Questo ha facilitato il rapporto con le lotte e dei lavoratori stessi tra di loro e con le loro organizzazioni sindacali. Ripeto: anche tra marzo e maggio quando eravamo chiamati abbiamo fatto di tutto per essere a fianco dei lavoratori ma, comunque, adesso la cosa è più facile, riusciamo anche a organizzare iniziative di più giorni in determinate situazioni, come in una fabbrica di gomme con oltre cento dipendenti in città e vari pezzi in giro per l’Italia: oggi domenica 25 aprile 2021 siamo arrivati al quarto giorno di blocco dei cancelli, grazie al fatto che la manodopera è fortemente sindacalizzata.
Guido della CUB – d’ora in poi GC: All’inizio il padronato pubblico e privato approfittava della pandemia per negare anche i minimi diritti sindacali, come le assemblee; adesso riusciamo a farle oltre che in remoto anche negli spazi all’aperto. Da tenere presente, tra le difficoltà, anche il fatto che i lavoratori erano all’inizio fortemente scossi e impauriti dalla situazione e pressoché immobilizzati; poi piano piano hanno cominciato a comprendere i rischi che correvano e hanno iniziato a reagire per ottenere un minimo di salvaguardia della loro salute. Come ha detto Antonio, i fatti del bresciano e del bergamasco sono stati uno spartiacque da questo punto di vista, che ha portato i lavoratori a comprendere che lo stipendio non valeva il rischio che correvano.
UN: Quali sono state le lotte più significative dal primo lockdown a oggi?
AC: Innanzitutto in alcuni comparti della distribuzione, ad esempio nella commercializzazione del fresco nei supermercati, poi nella movimentazione merci: i fatti di Piacenza si iscrivono in questo genere di lotte ma, a parte questo, ci sono state tante lotte di notevole rilievo in questo comparto e che non si sono mai fermate. Insomma, come si sa, le più evidenti sono state nel settore della logistica ma, in maniera meno visibile, si è mosso il comparto sanitario in maniera molto organica: sia i medici sia gli infermieri, pur continuando a lavorare solidaristicamente come matti e rischiando veramente tanto – mancando, soprattutto all’inizio, qualunque serio intervento delle amministrazioni locali e sanitarie a difesa della salute dei lavoratori. Ovviamente non ci sono stati grossi scioperi per il senso di responsabilità degli addetti a questo fondamentale settore ma ci sono stati comunque significativi momenti di pressione per migliorare la situazione sanitaria, non solo per loro ma per la popolazione in generale colpita dalla pandemia e dalla selvaggia ristrutturazione del comparto. Di là della retorica dell’«andrà tutto bene» non andava per niente bene tutto: conosciamo tanti compagne e compagni che lavorano in sanità e le cose che ci raccontavano erano tremende.
GC: Nella fase del primo lockdown il comparto metalmeccanico si è mosso poco in quanto ha ottenuto alcune minime garanzie sulla sicurezza e avevano avuto da poco con la “triplice” la firma di un contratto, sia pure al ribasso, per cui erano un minimo “garantiti”.
UN: Ci sono stati veri e propri processi solidaristici messi in atto dalla classe lavoratrice?
AC: Sì, sia alcuni aspetti di solidarietà di classe, sia la solidarietà verso le persone più indifese nel caso degli operatori della sanità: ricordiamoci come tanti reparti sono stati chiusi per essere trasformati in “reparti covid”, lasciando scoperte moltissime patologie anche gravi: anche in una situazione del genere i lavoratori hanno fatto davvero del loro meglio e anche di più.
GC: Non si è trattato di cose molto eclatanti ma comunque processi solidaristici ci sono stati. Non ci sono state vere e proprie Casse di Mutuo Soccorso – non si è ancora a questo livello di coscienza e di organizzazione – tra i lavoratori ma, ad esempio, nei luoghi di lavoro è passata spesso la linea che doveva rientrare per primo dalla Cassa Integrazione chi era in maggiori difficoltà.
UN: Con la “seconda ondata” cosa è successo?
AC: È stata dura anch’essa ma meno disastrosa della prima che appariva come una situazione senza uscita. Si è sempre al limite di guardia ma l’esperienza precedente ha permesso di affrontare meglio la situazione anche se sappiamo bene, per contatti diretti, che la situazione resta pesante: comunque molti reparti covid che erano stati riconsegnati alla cura di altre patologie da ottobre in poi li hanno dovuti ritrasformare nella condizione precedente.
GC: Da tenere presente il fatto che la Lombardia è, per così dire, all’avanguardia nei processi di privatizzazione della sanità: da un lato l’ospedalizzazione è stata ridotta sia in termini quantitativi sia qualitativi – le strutture private dominanti sono per definizione prive degli apparati sanitari più costosi per ottimizzare i profitti – dall’altro è andata ancora peggio alla medicina di territorio, davvero ridotta ai minimi termini. Anche altrove si è seguita la stessa politica scellerata ma tutto è iniziato qui, dunque la mia regione è quella dove questi processi sono andati più avanti e siamo stati ancora più disarmati di fronte alle necessità. Per quanto riguarda invece la questione sindacale, nonostante abbiano provato anche stavolta a utilizzare la pandemia per limitare i diritti sindacali, come si è detto, abbiamo potuto muoverci un po’ di più, indire anche scioperi in vari settori, nelle fabbriche, nella logistica ma anche nella ristorazione e nel turismo dove abbiamo fatto anche grosse lotte: i lavoratori in questione erano stati pressoché abbandonati da chiunque e gli unici ad avergli dato una mano siamo stati noi del sindacalismo di base, ottenendo anche alcuni risultati, sbloccando ad esempio determinate risorse con mobilitazioni sotto l’INPS e la Prefettura. Il tutto nonostante alcuni lavoratori li perdessimo per strada perché avevano bisogno urgente di un reddito e lo cercavano in ogni modo, anche “a nero”. Siamo anche riusciti a bloccare alcuni tentativi di licenziamento tramite la finta disdetta di appalti.
UN: Rispetto alla salvaguardia della salute nei luoghi di lavoro qualcosa è cambiato?
AC: Dipende da dove: spessissimo dobbiamo intervenire proprio in merito al non rispetto delle normative che, in teoria, ci sarebbero. Abbiamo avuto il licenziamento di un giovane lavoratore che nella sua azienda di quaranta addetti era stato il primo a iscriversi al sindacato e aveva posto tutta una serie di questioni proprio sulla sicurezza, dato che c’erano stati vari casi di contagio e molti erano stati fatti rientrare senza nemmeno il tampone, avendo come risposta un forte mobbing – ma non è certo l’unico caso che conosciamo. Alla fine questo lavoratore, tra l’altro militante nella “Brigata Operaia” nata negli ultimi mesi del 2020, trovandosi senza l’appoggio degli altri lavoratori intimoriti dall’azienda e nonostante la nostra mobilitazione con due presidi sotto la fabbrica, è stato licenziato “per giusta causa” per una sua intervista a un quotidiano che “ledeva l’immagine dell’azienda” e attualmente siamo in causa. In pratica, quando in un luogo di lavoro abbiamo un forte livello di sindacalizzazione le normative si riescono a far rispettare, dove questa situazione manca la situazione è micidiale e chi si ribella rischia concretamente il licenziamento. Dove non c’è una qualche forma di organizzazione dei lavoratori è tabula rasa per i diritti del lavoro.
UN: Non dovrebbero però in teoria essere vietati i licenziamenti in questa fase?
AC: In teoria, appunto. Il padronato però trova le sue strade per togliersi di mezzo i lavoratori che chiedono i loro diritti.
GC: Nonostante si dica che i licenziamenti sono bloccati di fatto non è così. A parte le ritorsioni contro i militanti sindacali, prendiamo l’esempio degli alberghi: sono chiusi ma i servizi sono in larga parte gestiti col sistema degli appalti con srl o finte cooperative – disdicono allora il contratto e i lavoratori vengono messi in cassa integrazione guadagni, se gli va bene, altrimenti assai spesso l’azienda dell’appalto dichiara che non ha più lavoro e licenzia direttamente “per giusta causa”. Questa situazione è presente, poi, in molti altri comparti per cui la storiella del blocco dei licenziamenti è una cosa molto relativa – per non parlare di cosa accadrà quando la normativa in questione verrà meno: sarà un vero e proprio massacro sociale, sia per dati oggettivi perché molte attività, soprattutto piccole e medie, non riusciranno a riaprire, sia perché si approfitterà della situazione per eliminare gran parte dei contratti a tempo indeterminato per ampliare l’uso di una forza lavoro sempre più precarizzata.
UN: A parte le mobilitazioni interne ai luoghi di lavoro, come ci si è mossi verso le responsabilità istituzionali?
AC: Molto del disastro è stato dovuto come detto anche alle politiche istituzionali che, nel tempo, hanno sfasciato la sanità pubblica. Purtroppo non c’è stata la mobilitazione necessaria: ci si poteva aspettare una reazione di massa verso questi oggettivamente corresponsabili dello stato di cose ma le manifestazioni sotto i palazzi istituzionali hanno visto alcune migliaia di persone – tante in sé ma praticamente in una città come Milano questo significa i soli militanti. Come sindacati di base, insomma, ci siamo mossi bene, facevamo e facciamo spessissimo presidi sotto la Regione, anche con i lavoratori stranieri e le donne, ecc., mettendo in atto anche le cose che in teoria non potremmo fare ma non siamo riusciti a innescare ampi processi di autonomia di classe, dove i lavoratori si muovono in prima persona indipendentemente dalle burocrazie sindacali e politiche. In ogni caso, però, continuiamo la nostra attività e ogni giorno incontriamo lavoratori che cercano modi per migliorare la propria condizione e quasi ogni giorno abbiamo un’iniziativa in corso. A occhio e croce credo che questa sia in generale la situazione nelle medio/grandi città.
UN: Sul ruolo della triplice sindacale invece cosa puoi dirmi?
AC: In pratica non esiste come sindacato nel senso autentico delle parola: si limita a fare accordi al ribasso col padrone e, dove sono presenti i sindacati di base, i dirigenti aziendali prendono sottobraccio i dipendenti chiedendogli di cambiare sindacato, evidentemente considerando CGIL-CISL e UIL veri e propri sindacati gialli.
UN: Come vi state preparando per questo Primo Maggio?
AC: Abbiamo messo in piedi un cartello di vari sindacati di base con vari incontri, in presenza e/o in remoto, per cui ci vedremo sabato Primo Maggio alle 14.30 e di lì ci recheremo in corteo fino a Piazza Duomo. Il percorso non è un granché ma speriamo di essere in tanti. L’anno scorso il Primo Maggio non c’è stato se non con piccole iniziative “virtuali”: quest’anno ci siamo detti “no al virtuale, ritorniamo alle piazze”. Abbiamo una specie di permesso che, pur mantenendo il divieto di corteo, ci autorizza ad arrivare a Piazza Duomo; poi si vedrà e, in ogni caso, in prima fila ci saranno le donne e i migranti, dati gli assassinii di massa che stanno succedendo nel Mediterraneo.
GC: Questo tentativo era iniziato in realtà l’anno scorso, eravamo partiti sin da gennaio con riunioni dei sindacati di base e altre realtà sociali, poi l’arrivo della pandemia ha fatto saltare pressoché tutto. Il nostro principale interesse era diventato rompere l’accerchiamento in cui volevano costringerci, giungendo poi alla manifestazione contro la Regione di cui si parlava prima. Quest’anno siamo partiti un po’ più in ritardo ma siamo riusciti a mettere insieme, come si è detto, quasi tutte le sigle del sindacalismo di base e le varie realtà cittadine che operano su vari terreni: un cartello abbastanza ampio che ci fa sperare in una buona riuscita.
UN: Le prospettive future dopo questo Primo Maggio?
AC: Sono ovviamente un’incognita: speriamo bene, noi ci stiamo mettendo tutto l’impegno possibile, anche per uscire dai recinti dei singoli sindacati di base in cui ognuno si fa le sue piccole storie. Il sindacato deve essere sia uno strumento per migliorare le condizioni dei lavoratori sia per innalzare il livello di coscienza del mondo del lavoro oltre l’aspetto rivendicativo occasionale. Certo, se hai la pancia piena riesci a ragionare meglio ma non basta quella: deve essere il punto di partenza per una coscienza di classe, di solidarietà, di mutuo appoggio e per un radicale cambiamento della società.
[Intervista redazionale]